venerdì 29 gennaio 2010

Spremuta d'arancia

Accoglienza è sicurezza.

Mai come con i fatti di Rosarno questo slogan può essere vero.
Presenti ma mai accolti, come anime che non trovano cittadinanza in nessun corpo sociale, i lavoratori immigrati figli delle disuguaglianze globali hanno finito per esplodere la loro rabbia per la condizione di non-esistenza in cui venivano tenuti. A farne le spese è la sicurezza di tutti, italiani e stranieri.

Esseri umani, nostri fratelli in tutto e per tutto, accomunati a noi dal destino comune della vita su questo pianeta, accatastati all’alba ai bordi delle strade in attesa della grazia di essere caricati su un camion e portati a lavorare nei campi. A raccogliere gli agrumi delle nostre spremute mattutine. Sperando di non essere malmenati dai caporali, di non beccarsi malattie, di essere pagati quegli spiccioli necessari a sopravvivere senza uscire mai da quella condizione. Magari con famiglie a carico da qualche parte del mondo, a cui non si può raccontare la vergogna del sogno infranto di una vita migliore.
Chi non riceve questa grazia del lavoro forzato diventa un indesiderato. È lì, ma non lavora. È lì, ma non serve a niente. Occupa suolo pubblico. E con questa sensazione nell’anima trascorre le giornate, i mesi, gli anni migliori della sua vita migliore. È il nostro fratello mai accolto.


Quando si sente parlare di “caccia al nero”, di sprangate, di deportazioni, di sparatorie, di pulizia etnica ti chiedi quali tempi stiamo vivendo.
Forse ognuno ha la presunzione di vivere in tempi migliori di quelli andati, in tempi in cui “certe cose non succedono più”. Chi è dentro le cose che vive non ha spesso la lucidità necessaria per guardarle con l’occhio distante. Quell’occhio distante che magari ci fa approvare come sacrosante le rivolte degli schiavi neri nelle piantagioni di cotone degli Stati Uniti del sud e ci fa condannare come “bestiali” quelle contemporanee negli agrumeti dell’Italia del sud (ma anche quelle “delocalizzate” negli sweatshops, i “laboratori del sudore” a cui le nostre imprese globali appaltano la produzione nel sud del mondo).

Manodopera che forse starebbe beatamente a lavorare i propri, di campi, se il modello agricolo locale non fosse stravolto dai modelli economici del nord del mondo, che sottrae terre alle popolazioni locali e decide i prezzi nelle borse delle capitali del consumo in base a meccanismi finanziari lontani dai piccoli produttori che lavorano la terra.
Così, il nostro fratello mai accolto estirpato dal proprio luogo di origine, in fuga da contesti politici ed economici instabili quando non dittatoriali (spesso alimentati dalla complicità dei paesi ricchi), in fuga dalla povertà o da qualsiasi altra cosa, si ritrova addosso un’etichetta che non lascia scampo: quella di clandestino. E scopre presto che la raccolta di frutta e ortaggi è una delle poche cose che può fare per sopravvivere in Italia nel 2010. Scopre che il prezzo da pagare è un salario bassissimo, una sistemazione indegna, la costante sensazione di essere indesiderato di cui sopra. Scopre che il prezzo da pagare non solo è l’assenza di accoglienza, ma è anche il rischio della propria incolumità. Scopre che il prezzo da pagare è la schiavitù.
Scopre di non essere considerato una persona, ma un pezzo dell’ingranaggio. Sente le parole dei proprietari degli agrumeti, che dicono che adesso che non ci sono più gli africani arriveranno quelli dell’est, che non hanno combinato casini. Si è rotto un pezzo, ne arriverà un altro.

La rivolta degli schiavi di Rosarno non ha giustificazione, in quanto violenta. La lotta per la dignità della persona ha però motivazioni fondate e universali. Non ha colore, né condizione sociale. Deve continuare, utilizzando però pratiche nonviolente e accomunare, non dividere, tutti coloro che si sentono cittadini di un mondo che non può mettere le ragioni del profitto economico e dell’economia criminale davanti a quelle della dignità umana e della libertà.

Mille chilometri di distanza non sono nulla nel contesto delle dinamiche globali in cui viviamo, e forse la civiltà di una società si misura proprio sulle frontiere della sua capacità di accoglienza, e oggi le frontiere sono ovunque, sono nei rapporti di vicinato, negli incontri sull’autobus, nei luoghi di lavoro, nelle scuole e nelle strade.
Dimostriamo che i nostri tempi sono davvero migliori, aboliamo qualsiasi pratica e parola razzista, recuperiamo in ogni atto quotidiano l’idea di fratellanza universale, che nessuno esclude e nessuno discrimina, acquisiamo la capacità di distinguere tra metodi sbagliati (la violenza) e motivazioni legittime (la dignità umana) da recuperare attraverso strumenti nonviolenti.
Accogliamo il fratello che non abbiamo mai voluto accogliere.

F.C.

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