venerdì 19 febbraio 2010

Sensazioni notturne post-cerchio


All'inizio non sapevo bene a cosa pensare.
C'erano tante cose che mi distraevano, c'era la falce di luna che era alle mie spalle e non sapevo quante volte mi potevo girare in un'ora.
C'era qualcosa a cui dovevo pensare?
Dovevo far capire agli altri che stavo pensando alla libera convivenza interculturale?
Potevo muovermi?
Potevo danzare?
È stato un attimo, sciogliermi.
Farsi invadere dalla bellezza del momento. Percepirne la forza liberatoria. Cantare.

Ed ecco alcune attività e pensieri che mi hanno attraversato in quell'ora di silenzio:
-    il recupero dei cinque sensi nella loro versione più radicale: riconciliarmi con i suoni della città, con gli odori, con le risate, con le differenti lingue che attraversano il panorama fonetico contemporaneo, con le chiacchiere al cellulare; riconquistare il privilegio di ascoltare lo sferragliare di un autobus, di osservare i dettagli delle finestre delle case, dei merli delle torri, di sentire il discorso della memoria della città vecchia.
-    Sentirmi radicato in un suolo, valorizzare il centimetro quadrato di mia pertinenza, sentire su di me tutta la forza della responsabilità di non lasciare vuoto quello spazio.
-    Canzoni, parecchie canzoni mi hanno attraversato e cullato. Mi ricordo ora Piazza Grande di Lucio Dalla, “A modo mio...” e poi mi inventavo delle parole interiori.
-    Contare quante persone componevano il cerchio, a partire dalla persona che si trovava esattamente di fronte a me. Qualche distrazione è necessaria per superare i momenti più difficili...
-    Osservare il processo di annottamento nel cielo.
-    Osservare l'albero spoglio davanti a me, e immaginarsi di vederlo rinfoltirsi di mese in mese, di percepirne la crescita e il ciclo naturale (ipotesi valida solo se mi metto sempre dalla stessa parte del cerchio, d'altra parte mi piacerebbe sperimentare anche nuove visuali; sono esempi dei crucci del cerchista)
-    Analizzare la composizione sociale e demografica del cerchio, senza trarne particolari conclusioni (due tipiche caratteristiche di un buon sociologo).
-    Architettare un metodo di misurazione della partecipazione basato su un calcolo del diametro del cerchio: a febbraio eravamo a 5 metri, a marzo c'è stato un calo a 3 metri, a giugno l'impennata a 15 metri! (ma per la questura non andavamo oltre i 20 centimetri); considerare che è una variabile un po' troppo dipendente dalla distanza a cui ci si mette l'uno dall'altro, e che si può alterare a nostra discrezione, dunque scientificamente discutibile.
-    Pensare che fuori dal cerchio c'erano due persone che parlavano e stavano in prima linea, ammirarle e fantasticare sulle possibili interazioni che stavano vivendo.
-    Una sfrenata voglia di scrivere sul momento queste sensazioni, ma non sapevo se era valido tirar fuori penna e taccuino dalla borsa e mettersi a scrivere, paura di alterare un'alchimia.

Di tutto, la cosa che mi pare più significativa è il recupero della relazione con la città, con la comunità, una cura speciale per i suoi spazi, e le sue bellezze, e una cura speciale per i miei pensieri, e una cura speciale per le altre persone.
Penso sia una cosa tutto sommato fantastica.
Ho capito che non c'è nessun pensiero da pensare. Che è un esercizio. Che non importava niente se io stavo pensando a una libera convivenza interculturale oppure no. Che la vera forza era nel cantare canzoni interiori, nell'ammirare i colori del cielo, nell'entrare in una relazione nuova con la città.
Ho capito che a volte basta saper guardare alla luna per accogliere tutte le sorelle e i fratelli di questo mondo, e sentirsi da loro accolti. F.C.

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